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Immigrazione, gli stranieri spingono l’Italia della crisi

Simone Cosimi Giornalista – Sono l’11% della popolazione in età lavorativa, producono la stessa quota di Pil e il loro tasso di occupazione è superiore a quello degli italiani. Ma sono ancora discriminati

Il tema lavoro è la chiave della crisi da cui stiamo faticosamente uscendo (?). Se lo è per gli italiani lo è, in modo ancor più profondo, per la popolazione immigrata. Di questo, cioè del volume, dei tassi di occupazione, delle competenze e delle politiche d’integrazione, si occupa il rapporto dell’Ocse presentato questa mattina alla sala gialla del Cnel e dall’Onc, Organismo nazionale di coordinamento per le politiche di integrazione sociale degli stranieri, e dal ministero del Lavoro, battezzato L’integrazione degli immigrati e dei loro figli in Italia.

Quanto alle dimensioni del fenomeno, c’è anzitutto da notare che insieme alla Spagna l’Italia è il Paese dell’Ocse con la più alta crescita annuale di immigrati. Un trend che si è stabilizzato su questi livelli dal 2000 e d’altronde in linea con quanto stimato dall’Onu: nel 2013 i migranti sono stati 232 milioni. Si è mosso il 3,2% della popolazione mondiale, 13 anni fa erano 175 milioni. Oggi in Italia sono 4,5 milioni di persone, l’11% della popolazione in età lavorativa, cioè fra i 15 e i 64 anni. Altri rapporti parlano invece di una cifra complessiva superiore ai 5 milioni.

Dopo l’iniziale motore occupazionale – alimentato da immigrati provenienti da Ue, Nord Africa e Filippine – la presenza si è consolidata con ricongiungimenti famigliari e ragioni umanitarie, mutando anche origine: Albania, Romania (poi entrata nell’Unione come la Bulgaria) e in generale Europa dell’Est e dei Balcani. Un flusso arrivato a pesare più della metà della popolazione immigrata in Italia.

Fra i primi problemi sottolineati dall’Ocse, il nostro sistema dei permessi di soggiorno: un autentico incubo. Lo status temporaneo prolungato viene concesso solo al 50% circa degli extracomunitari. L’altra metà deve imbarcarsi per una strada lunga e complessa e anche l’ottenimento della cittadinanza rimane ancora molto difficile rispetto ad altri paesi Ocse, dove invece questo passo viene promosso. D’altronde, i flussi legali sono praticamente bloccati e l’immigrazione italiana è diventata quasi esclusivamente quella emergenziale.

Venendo all’occupazione, in alcuni settori, paradossalmente per il quadro economico nostrano segnato da bassissima crescita (e anzi da anni di recessione) e mercato del lavoro stagnante, gli immigrati sono diventati una “componente strutturale” della forza lavoro. Si tratta in particolare del settore edile, dove lavora il 50% degli immigrati, e quello dei servizi domestici e assistenziali (50% delle immigrate). In quest’ultimo ambito – nella formazione e, per esempio, nel meccanismo dei buoni-servizio – si gioca una bella fetta della partita futura.

Questo il tasto più interessante del rapporto Ocse. Se i tassi di occupazione della popolazione immigrata in Italia sono di gran lunga inferiori alla media dell’organizzazione è anche vero che sono superiori rispetto a quelli degli italiani. Numeri purtroppo contraddistinti da “un’altissima incidenza di lavoro sommerso e irregolare, sfruttamento e discriminazione”.

Che vuol dire? Quello che purtroppo le cronache raccontano. Cioè che gli immigrati sono sproporzionalmente impiegati in lavori precari, poco qualificati e sottopagati. Vengono licenziati in maniera selettiva e discriminatoria e la loro strada a impieghi di maggiore livello è quasi sempre sbarrata. Anche per quelli fra loro, il 10%, altamente qualificati. Anzi, rischiano di lavorare pure meno degli autoctoni. Se questo trattamento è il menu a loro riservato in tutto il Paese, il rapporto nota comunque un minimo passo avanti nella mobilità Sud (più impieghi, peggiori condizioni), Nord (meno impieghi, condizioni parzialmente migliori). Insomma, una trappola occupazionale.

Il tasso di disoccupazione ha tuttavia iniziato a colpire dal 2007 tutti gli stranieri, in particolare quelli meno istruiti, attestandosi al 12,6% per gli uomini e al 15,9% per le donne. Purtroppo il livello d’istruzione dei giovani stranieri fra i 15 e i 34 anni è scarso. Nel migliore dei casi, secondo l’Ocse, equivalente alla terza media. Questo rende complicato completare gli studi e, come se non bastasse, solo otto regioni (dati Isfol) consentono agli studenti immigrati con qualifica professionale post-triennale di accedere ad un quarto anno di formazione e solo due regioni al quinto anno.

Come fra i ragazzi italiani, inoltre, crescono gli abbandoni scolastici (ma a scuola ci vanno 786.650 studenti, circa la metà nata in Italia) e soprattutto i neet. Quelli che non studiano, non lavorano e non fanno esperienze formative di altro genere. Sono circa il 30% fra i 15 e i 24 anni.

La crisi occupazionale mette all’ordine del giorno non la fine dell’immigrazione, che, come per il resto dell’Europa, in ragione del deficit demografico, continua a essere un fattore della crescita, ma un problema decisivo della competitività, quello della riqualificazione del mercato del lavoro, che riguarda lavoratori italiani e immigrati – si legge nelle osservazioni del Cnel – parlare di integrazione degli immigrati anche durante questa crisi che quanto prima dovrà pur terminare, è doveroso anche perché non ne sono stati risparmiati, anzi sono più colpiti rispetto agli autoctoni. Ma anche in queste condizioni di oggettiva difficoltà il contributo fiscale e produttivo degli immigrati resta importante per il Paese. Essi infatti contribuiscono con l’11% di Pil (ogni punto vale 16 miliardi di euro), con 43,6 milardi di euro dichiarati (gettito Irpef di 6,5 mld) e con circa 7 miliardi annui di versamenti Inps. Sta nascendo una società nuova, in cui tutti, italiani e immigrati, hanno necessità di rassicurarsi non solo rispetto alle condizioni di lavoro e di vita, oltretutto in una situazione tanto difficile, ma a un’ordinata vita sociale e alla sicurezza personale, alla integrità fisica e morale, alla identità culturale e religiosa”.

Una cornice complicata, insomma. Peggiorata dalla crisi, che ha colpito una dinamica d’integrazione che con fatica stava partendo, visto che l’immigrazione italiana è recente e non è paragonabile a quella avvenuta nei Paesi del Nord Europa o altri che da decenni hanno a che fare con certi flussi.

Tanti i punti deboli: si va dalle normative antidiscriminatorie alla formazione linguistica, vittima di una disorganizzazione clamorosa, come d’altronde gli altri progetti, per esempio quelli finanziati dal Fondo sociale europeo o quelli regionali (nel 2010 31 milioni di euro stanziati, erogato solo il 18%). Quanto ai corsi di lingua, manca un coordinamento nazionale e il settore è zeppo di enti, soggetti, associazioni che operano a livello locale e regionale. Anche qui, si verificano spesso casi di malagestione. In ogni caso, non esistono programmi nazionali che prevedano alcun tipo di formazione linguistica orientata al mondo del lavoro.

fonte: http://www.wired.it/economia/lavoro/2014/07/08/immigrazione-stranieri-italia/






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