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VEDI AL BIRAK E POI MUORI

Per i 205 profughi eritrei rinchiusi nel carcere di Al Birak ci sono state in questi giorni due notizie: una buona e una cattiva. Quella buona è che sono stati liberati; quella cattiva è che della libertà, privi di ogni cosa e circoscritti in mezzo al deserto, non sanno che farsene.

Da quanto si è appreso, per loro si sono finalmente aperte le porte del campo profughi di Al Birak, una ridente cittadina della Libia centro-orientale, sorta all’estremità di un altopiano roccioso posto a 350 metri sul livello di quel bellissimo mare della Cirenaica che si intravede a 800 chilometri di distanza se si guarda a nord. A sud, invece, ci si affaccia sullo splendido deserto sabbioso dell’erg di Ubari: un entusiasmante susseguirsi di dune alte decine di metri ed estese per decine di chilometri.

 

Adesso potranno cercarsi un lavoro in virtù del visto turistico di tre mesi che gli è stato consegnato dalle autorità libiche, scaduti i quali dovranno purtroppo tornare in Eritrea e pazienza se ci troveranno la morte: vedi Al Birak e poi muori!

Ma Al Birak non è Napoli e l’Eritrea non è l’Italia.

L’Eritrea dopo la sanguinosa guerra trentennale con l’Etiopia, ha conquistato l’indipendenza nel 1993 e si è dotata di una Costituzione che non è mai stata applicata dal suo Presidente Issaias Afewerki il quale ha imposto una ferrea dittatura che, attraverso la sua polizia segreta Hagerawi Dehnet, estende il suo potere anche in Italia dove ai cittadini eritrei è imposto di pagare il 2% dei guadagni pena il divieto di rinnovare il passaporto e i certificati consolari.

La stessa Italia non ha più rappresentanza diplomatica ad Asmara da quando l’ambasciatore Ludovico Serra venne trattenuto in carcere a Massawa per due giorni dal 4 marzo 2006.

Quelli che non reggono questa dittatura, scappano lasciando tutto e portandosi appresso solo la vita sapendo che perderanno pure quella tornando in patria. Scappano inevitabilmente a nord, verso l’Italia che aveva in Eritrea una delle colonie sino al 1941 e che quindi è il Paese più familiare.

Finché la Libia è stato un Paese di transito verso l’Europa, non vi sono stati freni e, anzi, con quel passaggio i libici si sono arricchiti. Ma ora che l’Italia ha chiesto alla Libia di farsi gendarme dei confini a sud dell’Europa, fornendole le motovedette per pattugliare il mare affinché si facesse carico dei respingimenti indiscriminati che l’Italia non poteva fare, in quanto Paese sottoscrittore della convenzione sui rifugiati, e pagando 5 miliardi di dollari per i prossimi vent’anni sotto il titolo di risarcimenti per i danni dell’occupazione, ecco che gli eritrei devono essere dissuasi dal recarsi in Libia dove il loro accumulo potrebbe creare disordini.

Niente di meglio, dunque, che lanciare, attraverso il destino dei 205 profughi sotto i riflettori del mondo, un messaggio chiaro agli eritrei affinché evitino di lasciare il loro Paese o cambino strada. E pazienza se questo messaggio costerà la vita ai rimpatriati.

Se i politici italiani che hanno condiviso il trattato italo-libico riusciranno a dormire la notte sapendo quali supplizi sono stati inflitti ai 205 eritrei nel campo profughi di Al Birak e quale destino li attende, è un problema delle loro coscienze.

L’Associazione Migrare chiede che venga istituito un ponte aereo per andare a prendere quei 205 profughi affinché si verifichi chi di loro abbia diritto all’asilo politico. Chiede, inoltre, che l’Italia di renda promotrice a livello internazionale delle iniziative necessarie a far applicare quella Costituzione di cui l’Eritrea si è dotata dal 1997 e che non ha trovato ancora applicazione. E’ assai difficile che da un Paese meraviglioso come l’Eritrea partano in tanti se anche lì la democrazia comincerà a trovare applicazione.


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