Main Menu

L’IMMIGRAZIONE E LE SUE COMPLESSITÀ

di Ferdinando Sanfelice di Monteforte – analisidifesa.it – Pubblichiamo il testo della conferenza tenuta nel febbraio scorso dall’Ammiraglio di Squadra (a) Ferdinando Sanfelice di Monteforte al LEO Club di Udineimages

L’immigrazione è per noi Italiani un tema particolarmente sentito: per circa un secolo e mezzo milioni di nostri connazionali hanno infatti dovuto cercare una vita nuova oltre confine, vuoi nelle Americhe, vuoi in Australia, vuoi, in tempi recenti, nel Nord Europa.
Oggi, l’emigrazione italiana è numericamente ridotta, ma qualitativamente significativa, dato l’eccesso di persone colte rispetto alle possibilità di impiego. Si tratta quindi di un fenomeno che è stato ben definito come “la fuga dei cervelli”.
Ma non tutti i nostri emigranti sono partiti per sempre.

Già negli anni 1950, con il miglioramento della situazione economica del nostro Paese, gli immigrati che avevano “fatto fortuna” all’estero tornavano al paese, giravano per le strade su auto americane, gettando soldi in giro ai passanti, oppure – più saggiamente – finanziando la costruzione di chiese e di caserme di Carabinieri: andate ad esempio a Montesano, subito dietro Padula, sulle colline prospicienti l’autostrada per Reggio di Calabria, e troverete ancora le tracce di questo fenomeno di ritorno. Oggi i ritorni si stanno facendo più numerosi, a causa dell’insicurezza dei Paesi dove i nostri avevano cercato fortuna.

Va detto però che, ancora prima che una parte notevole della nostra popolazione lasciasse l’Italia, il nostro popolo, in grande maggioranza, si era “arroccato” in paesi e cittadine ben lontani dalla costa, lasciandosi indietro, a guisa di isole, le poche comunità marinare che dovettero resistere coraggiosamente per secoli alle incursioni barbaresche.
Benché ai nostri giorni la popolazione sia tornata a vivere sulle coste, questo retaggio è rimasto, e si è instaurato in Italia il fenomeno che, in Gran Bretagna, viene definito “Sea Blindness” (cecità a riguardo del mare).

Di conseguenza, la maggioranza non si accorse subito, quando  iniziò l’immigrazione dal mare verso il nostro paese, quanto fosse vera la frase di BRAUDEL, “la complicità della geografia e della storia ha creato una frontiera intermedia di coste e di isole che, da nord a sud, divide il mare (Mediterraneo) in due universi ostili.

Provate a tracciarla, da Corfù e dal Canale d’Otranto, fino alla Sicilia e alle coste dell’attuale Tunisia: a est siete in Oriente e a ovest in Occidente, nel senso pieno e classico di entrambi i termini. Come stupirsi, dunque, del fatto che tale cerniera si identifichi appieno con la principale linea su cui si sono svolte le grandi battaglie del passato?”( F. Braudel. Il Mediterraneo. Ed. Bompiani, 1998, pag. 12).

Se a questa osservazione si aggiunge il fatto che la nostra penisola è come un ponte proteso verso l’Africa, dovremmo ricordarci che i ponti sono normalmente a doppio senso di circolazione: già nel lontano passato l’Italia era stata oggetto di invasioni dal Sud, e quindi non c’è da stupirsi se questo fenomeno si ripeta periodicamente.

Storicamente, le cause scatenanti di questo fenomeno di migrazione di massa sono essenzialmente due:
– la pressione demografica, che spinge una parte della popolazione a cercare nuove opportunità di vita altrove. Ciò avviene, al giorno d’oggi, specie nel Nord Africa: si pensi, ad esempio, che il Marocco del 1909 aveva una popolazione pari a un decimo di quella attuale, e lo stesso accade per gli altri paesi del continente africano;
– i conflitti inter-etnici e religiosi, una piaga che, ai nostri giorni, è diventata sempre più diffusa, specie nell’Africa sub-sahariana e nell’Asia occidentale, il cosiddetto Levante.
Ma l’immigrazione non è solo un fenomeno spontaneo, che utilizza traghettatori artigianali. Nel mondo attuale, caratterizzato dall’uso di ogni mezzo al di sotto della guerra, per influenzare gli eventi, gli Stati – ma anche i gruppi transnazionali – la strumentalizzano per esercitare pressioni sui vicini, per danneggiare i concorrenti e comunque per conseguire i loro obiettivi vitali.

Quindi, l’immigrazione è anche un mezzo a disposizione dei vari attori nel campo delle relazioni internazionali, e non è pertanto solo un problema interno, bensì anche di politica estera.

Non basta quindi fermarla con misure di polizia marittima, accogliere caritatevolmente questi poveracci che vengono utilizzati, oppure finanziare lo sviluppo dei Paesi che soffrono per un eccesso di popolazione, ma bisogna soprattutto creare le condizioni affinché gli Stati interessati non siano incentivati a ricorrervi quale strumento contro di noi.

In effetti, già durante la Guerra Fredda avevamo avuto dei segnali di avvertimento, circa il fatto che la realtà dell’immigrazione fosse molto più complessa di quanto credessimo. Fino al 1979, l’unico fenomeno migratorio consistente verso il nostro Paese era stato quello, lento ma costante, dei Cinesi che sfruttavano i 50 visti annui concessi dal nostro governo per introdurre numerose persone, si disse fino a 10 volte di più, con il sistema del “riciclaggio del passaporto”: una volta arrivato a destinazione, l’immigrato rispediva il passaporto in patria, in modo che un’altra persona ne usufruisse, e così via.

Quell’anno, invece, sotto la spinta emotiva della compassione verso quei Vietnamiti del Sud – subito soprannominati “Boat People” – che sfuggivano al regime comunista, avendolo combattuto, l’Italia decise di inviare tre navi da guerra nel Golfo di Tailandia, il Vittorio Veneto, il Doria e lo Stromboli, per rendere più sistematico ed efficace il recupero di questi poveracci: pochi giorni prima, infatti, un mercantile europeo, noleggiato da una ONG, aveva scarrocciato su un barcone di profughi, uccidendoli tutti.
Quello che i nostri equipaggi trovarono fu una serie di sorprese. Anzitutto, i barconi incontrati in mare venivano, per la maggior parte, dalla direzione apparentemente sbagliata, vale a dire dalla Malesia anziché dall’Indocina.

Il governo di Kuala Lumpur, infatti, voleva evitare ogni alterazione del precario equilibrio etnico tra la componente “Cinese”, attiva, coesa e capace di arricchirsi in breve tempo, e quella cosiddetta “Malese”, musulmana e meno brillante nel campo dell’imprenditoria e degli affari, e non aveva alcuno scrupolo a rispedire indietro, su vecchi e fatiscenti barconi, i profughi che raggiungevano il suo territorio.

Ancora peggio, quando furono presi contatti con il rappresentante dell’Alto Commissariato ONU per i rifugiati, si venne a sapere che addirittura, appena un gruppo di Vietnamiti sbarcava su una spiaggia, questa veniva recintata e presidiata dai soldati, che negavano qualsiasi cibo o bevanda ai poveracci, a meno che il personale dell’Alto Commissariato non localizzasse questo “campo di concentramento” improvvisato.

Comunque, dato che l’asilo politico veniva negato dal governo malese – anche per non irritare il Vietnam, la cui potenza militare era ormai predominante a livello sub-regionale – il personale ONU si doveva rassegnare ad assistere impotente al reimbarco dei profughi verso destinazioni ignote.

Inutile dire che, durante questo vagare senza meta, i barconi diventavano preda dei pirati, da sempre attivi nella zona, intenti a spogliare quei disgraziati dei preziosi “tael”, le piastre d’oro che erano l’antica moneta dei Regni indocinesi prima della conquista francese, usati per portare via i risparmi di una vita.

Ma la stampa nazionale, malgrado i giornalisti imbarcati sulle navi avessero raccontato queste cose, non vi prestò molta attenzione; fu necessario arrivare agli anni 1990 perché la nostra opinione pubblica capisse, da una serie di eventi, che il problema dell’immigrazione era ben più complicato di quanto si pensasse, e né coloro che propendevano per una politica di accoglienza, né chi era contrario a tale apertura senza restrizioni furono in grado di trarne le conseguenze.

Il primo caso fu quello dell’Albania, dove era appena avvenuto il cambio di regime, a causa dell’implosione del governo comunista; subito dopo l’insediamento del nuovo governo, infatti, numerosi imprenditori finanziari italiani vi si recarono, approfittando del caos che regnava nel paese, per raccogliere il risparmio delle famiglie, e poi dichiarare fallimento.

Pochi giorni dopo la comparsa della notizia di questo scandalo su tutti i giornali, un vecchio mercantile, il “Vlore”, fu avvistato mentre si dirigeva lentamente verso l’Italia, con 10.000 persone a bordo: si trattava di tutti i reclusi nelle prigioni di quello Stato, vuoi per motivi politici, vuoi per crimini, insieme alle loro famiglie.

A questo seguì per quasi un decennio un continuo afflusso di migranti, su vecchie imbarcazioni, ma anche su sofisticati e veloci gommoni – prodotti da Ditte italiane – provenienti da alcuni porti albanesi. Le autorità del Paese chiudevano ambedue gli occhi su tale massiccio andirivieni, finché il nostro governo non concluse accordi con la controparte; ci era voluta una tragedia, in cui una nostra nave fu accusata ingiustamente di aver urtato una vecchia motovedetta di quella nazione, per convincere il governo interessato ad agire per bloccare questo flusso.

Va detto che, subito dopo l’accordo, le stesse autorità locali incontrarono enormi difficoltà a frenare questo commercio, dato che i cosiddetti “imprenditori” avevano preso gusto ai lauti guadagni che tale attività procurava loro: quando il governatore di Valona sequestrò tutti i gommoni presenti in porto, gli “scafisti” si ribellarono e lo presero in ostaggio, ottenendo la restituzione dei gommoni, ma alla fine il flusso dei migranti si interruppe, grazie all’azione decisa delle forze di Polizia albanesi.

Più recentemente, dopo la rivolta del Kosovo e l’intervento della NATO, le comunità Rom della provincia – trasferitesi in Montenegro per sfuggire alla rappresaglia dei Kosovari – furono imbarcate su vecchi pescherecci, che venivano mandati al di là dell’Adriatico senza equipaggio e con il timone bloccato. Solo quando l’Italia posizionò le navi da guerra al limite delle acque territoriali, recuperando immediatamente i migranti e chiedendo di portarli in salvo nel porto più vicino – appunto quello di provenienza – anche questo secondo afflusso venne meno.

Passò poco tempo, e sulle coste della Calabria cominciarono ad arrivare vecchie carrette del mare, ognuna con un carico di 500-1000 Curdi; anche queste navi erano apparentemente senza equipaggio, benché fosse chiaro che queste erano state ben condotte, dato che si arenavano in zone precise, note fin dalla Seconda Guerra mondiale in quanto atte a consentire un agevole “spiaggiamento”.

Dopo ogni arrivo, passavano pochi giorni prima che un Console di un paese nord europeo arrivasse nei Centri di Prima Accoglienza, e fornisse tutti i migranti di visti d’ingresso, consentendo loro di entrare nel Paese di accoglienza; i nostri avevano appena il tempo di ripulire i locali dei Centri, che un’altra nave arrivasse.
Solo dopo la strage dell’11 settembre, quando la NATO avviò l’Operazione Active Endeavour, iniziando la sorveglianza dell’intero Mediterraneo, questo traffico si interruppe, come per incanto.

Rimaneva, intensificandosi, il flusso proveniente dal Nord Africa, che dura ancor oggi, come sappiamo. Questo fenomeno comprendeva però, almeno all’inizio, situazioni profondamente diverse tra loro: mentre dalla Tunisia veniva una parte della popolazione locale, l’immigrazione dalla Libia derivava dal fatto che il paese era la meta di una massiccia immigrazione attraverso il Sahara – si disse di oltre un milione di persone – da parte di persone attratte dalle favorevoli condizioni di vita nel paese, ma che finivano nei campi di concentramento. Addirittura, la Procura di Locri appurò che l’attraversamento del deserto era organizzato e gestito da affiliati ad al-Qaeda, la cui organizzazione lucrava da questo traffico, insieme alle tribù del Fezzan.

In concomitanza con i periodi di relazioni difficili tra l’Italia e la Libia, gruppi cospicui di questi disgraziati venivano imbarcati su vecchi barconi, e tentavano di arrivare alle isole Pelagie, spesso finendo la loro vita tragicamente; che anche questo flusso non fosse totalmente artigianale fu dimostrato dal fatto che, quando in un convegno organizzato in Italia, con la partecipazione di esperti giuridici di Tripoli, fu detto che il governo libico avrebbe dovuto almeno aver cura che i mezzi usati fossero più efficienti, per ridurre il tasso di mortalità, fu possibile notare un deciso miglioramento dell’affidabilità delle imbarcazioni impiegate!

Analoghe considerazioni valgono per gli afflussi dalla Tunisia: anche questi hanno sempre avuto un andamento sincrono con le richieste di quel governo di aiuti dall’Europa.

La “Primavera Araba” ha prodotto un incremento dei transiti, dato che i governi interessati avevano perso il controllo della situazione.

Anche in questo caso, l’Italia è stata interessata prevalentemente da flussi di persone che tentavano di raggiungere i loro parenti in altre nazioni europee, più che da coloro che cercavano di entrare nel nostro paese; questo ci ha creato problemi con i nostri vicini, dando luogo a una serie di difficoltà nei rapporti bilaterali.

Ai nostri giorni, un altro flusso massiccio di migranti, dalla Turchia verso le isole greche dell’Egeo, si è intensificato, fino a raggiungere proporzioni impressionanti. È ben vero che, in Turchia, vi sono circa 2 milioni di rifugiati siriani, ma è altrettanto vero che il governo di Ankara chiude ambedue gli occhi su questa migrazione di massa, che dalla Grecia prosegue, fino a coinvolgere tutti i Paesi dell’Europa Centrale.

Il sospetto che Ankara sfrutti il fenomeno per esercitare pressioni su tutta l’Unione Europea e cerchi di indebolirla,  minandone la coesione, non è peregrino: come diceva un politico italiano, l’Onorevole Andreotti, “a pensar male si fa peccato, ma spesso si indovina”!

Da tutto ciò appare evidente l’uso politico di tale sistema, specie quando i governi, oberati da una massa di rifugiati, cercano di “spuntare” condizioni di accordo più favorevoli rispetto a quelli ottenuti dai passati governi.

In definitiva, possiamo notare che gli Stati usano l’arma dell’immigrazione per perseguire vari fini. Anzitutto, c’è il sistema collaudato di inviare immigrati per esercitare pressioni politiche sulle nazioni vicine: questo accade per l’Italia, ma anche per la Grecia, dato che il flusso di immigrati viene dalla Turchia, notoriamente ostile alla sua ex colonia, ancor oggi chiamata, in quella nazione, “Yunanistan”, alias “Il Paese degli Ionii”.

Viene poi la volontà di “liberarsi” di una comunità ritenuta estranea e pericolosa per gli equilibri interni del paese; in qualche caso, questo desiderio si incontra con il bisogno di forza lavoro da parte di altri Stati, per cui questi poveracci transitano attraverso un paese terzo, senza permanervi, al di là del tempo necessario per rifocillarsi.

Infine, l’immigrazione è anche un mezzo per compiere una rappresaglia contro un altro Stato, quando ingiustizie vengono commesse, vuoi da un governo, vuoi da profittatori di quel paese.

Ma l’immigrazione non è il solo fenomeno preoccupante che impone un’azione di controllo degli spazi marini: il mare è un ambiente integrato, dove accadono tante cose simultaneamente e spesso nelle stesse zone. Bisogna infatti capire che gli esseri umani non diventano virtuosi quando lasciano la terra, anzi! I comportamenti criminali o irresponsabili ed i conflitti sul mare sono più numerosi di quanto si possa pensare.

Vi è anzitutto l’inquinamento da parte dei mercantili, alcuni dei quali vuotano le sentine in alto mare, subito al di fuori delle nostre acque, mentre altri vanno nelle zone instabili, e quindi prive di controllo statale, per riversare rifiuti tossici in grande quantità.

I nostri pescherecci, infine, usano queste zone per pescare senza limiti, depauperando risorse che sarebbero preziose per consentire l’avvio di attività legali, primo passo affinché questi paesi ritrovino una stabilità.

A questo si somma la pirateria, ormai ben nota al pubblico, dopo anni di scarsa attenzione al fenomeno, ma anche il terrorismo marittimo, una piaga che noi sottovalutiamo regolarmente, data la sua pericolosità.
Per questo, gli Stati Uniti, dopo la tragedia dell’11 settembre 2001, hanno prima ricercato una sinergia internazionale per fermare il traffico di armi di distruzione di massa: dopo l’implosione dell’URSS e nei primi tempi della Federazione Russa, scomparvero varie tonnellate di materiale radioattivo e di guerra chimica, che non sono mai sati localizzati, e si temeva che fossero finiti in mano a terroristi.

Successivamente hanno istituito un sistema di controllo dei mari adiacenti, profondo 1.000 miglia marine, estendendo poi il sistema al resto degli oceani, su base collaborativa con le altre nazioni.

Il sistema, denominato “Maritime Safety and Security Information System” (MSSIS), sfrutta i segnali che ogni mercantile emette, grazie a un apparato di trasmissione automatica di anti collisione, lo “Automatic Identification System” (AIS): l’insieme di tali segnali fornisce infatti una situazione generale che può consentire alle autorità statali di intervenire vuoi in caso di incidente, vuoi per fermare mercantili sospetti.

È interessante notare che erano proprio gli Stati Uniti, fino a pochi anni fa, i principali paladini della libertà dei mari. Quando però questa libertà è diventata licenza di fare qualsiasi cosa, non solo a fini di lucro ma anche e soprattutto per compiere attacchi ed esercitare pressioni su altri, persino a Washington si sono resi conto della necessità di stabilire anche sul mare un sistema di controllo analogo a quanto avviene da decenni per gli spazi aerei.

L’Europa ha iniziato anch’essa a guardare al mare come un ambiente da controllare. All’inizio, questo controllo è stato settoriale, attraverso l’opera delle Agenzie europee: l’European Maritime Safety Agency (EMSA), di base a Lisbona, ha stabilito una rete di sorveglianza ai fini della sicurezza della navigazione e dell’anti inquinamento, la Community Fishery Control Agency (CFCA) con sede a Vigo si occupa della pesca, mentre la Frontex, da Varsavia, coordina il controllo delle frontiere.

Queste tre Agenzie, nel novembre 2009, si sono accordate per scambiarsi i dati, in modo da fornire agli Stati membri una situazione più completa; ma la Commissione sta anche spingendo gli Stati europei a creare un insieme capace di unire i vari sistemi cooperativi di sorveglianza settoriali, creando una capacità inter-agenzia, denominata EUCISE 2020.

Questa iniziativa tiene conto della geografia dell’Europa, una massa terrestre compatta, circondata però da una serie di mari separati e distanti tra loro; questo porta alla necessità che gli Stati europei che sono bagnati da ognuno di questi mari a collaborare tra loro, in modo da consentire interventi coordinati e quindi una maggiore sicurezza.

Non è un’impresa facile! Ad esempio, il progetto preliminare per il Mediterraneo, denominato “BlueMassMed”, ha avuto dei ritardi, data la volontà francese di far avere alle sue industrie un ruolo preponderante, e ci è voluta tutta la pazienza della delegazione italiana per far loro accettare una soluzione più equa. Infine, Malta si rifiuta di salvare nella sua zona di competenza i barconi degli immigrati, per paura di doverli poi tenere nell’isola.

Per una volta, l’Italia non è stata a guardare: da tempo infatti sono state prese delle iniziative importanti, per assicurare la sorveglianza marittima.

Si iniziò nel 2002, convincendo gli altri paesi del Mediterraneo a collaborare nel sistema di scambio dati su base volontaria, denominato “Virtual Regional Maritime Traffic Center” (VRMTC); questo sistema, che ha il vantaggio di riunire tutte le dichiarazioni ufficiali di movimenti previsti dei mercantili che toccano i porti dei paesi interessati, ha trovato molto favore e per questo si è poi ampliato nella “Trans Regional Maritime Network” (TRMN), con inclusione di Brasile e Singapore.

Infine, sulla spinta della crescente minaccia, si è passati di recente alla creazione di una rete integrata interagenzia a livello nazionale, nota come DIIMS, il cui centro coordinatore è nella sede del Comando in Capo della Squadra Navale.

La necessità di unire gli sforzi era stata capita già all’epoca dell’immigrazione attraverso l’Adriatico, e ora, grazie al nuovo sistema, nel Canale di Sicilia la Marina, l’Aeronautica, la Guardia Costiera e la Guardia di Finanza riescono a sorvegliare i flussi dell’immigrazione, a evitare le tragedie del mare ed a disporre degli elementi per consentire al Ministero degli Esteri di esercitare pressioni sui paesi che la sfruttano contro di noi.

L’operazione “Mare Nostrum”, iniziata dall’Italia il 18 ottobre 2013, ha coinvolto 32 navi, 2 sommergibili e numerosi elicotteri, aerei e UAV, e ci è costata ben € 9 milioni al mese, ma ha portato al salvamento di ben 150.000 migranti, e alla cattura di 330 scafisti. Dal 1° novembre 2014, è subentrata l’operazione Triton, gestita dell’Agenzia europea Frontex, cui hanno partecipato navi di 16 Paesi europei.

L’iniziale limitazione dell’area di operazione ha causato ben 700 morti nel 2015, e per questo che è stato necessario allargare l’area di ricerca.
Ma i trafficanti hanno iniziato a reagire con le armi, mettendo in difficoltà le vedette delle Guardie Costiere che partecipavano all’operazione. Per questo è stato necessario quindi mettere in campo, di nuovo, forze delle Marine europee, che hanno avviato l’operazione Sophia, condotta da una forza navale europea a guida italiana, la EUNAVFORMED, cui partecipano 22 nazioni.

Va detto, per concludere, che non basta sapere ciò che accade sul mare; bisogna anche poter intervenire, e per questo sono necessarie delle forze, vuoi di Polizia, per la gestione della legalità nelle acque sovrane, vuoi e soprattutto delle Marine, che operano nell’alto mare da secoli, e il cui ruolo è riconosciuto dalle principali convenzioni internazionali (UNCLOS. Art. 107) e le cui capacità diventano necessarie per contrastare l’uso della forza da parte di chi vuole costringerci a rinunciare alla nostra difesa.

Nei rapporti tra Stati ci vuole una forza credibile, anzitutto per scoraggiare sul nascere gli avventurismi e le provocazioni, e poi per consentire alle forze di Polizia l’intervento al limite esterno della zona di acque sovrane, anziché all’ultimo momento.

Questa opera non è però esente da problemi giuridici, che si sono concretizzati con alcune sentenze della Magistratura: va ricordato infatti che, all’inizio dell’operazione “Mare Nostrum”, il comandante di un peschereccio italiano, per aver salvato numerosi profughi su un barcone in procinto di affondare, fu indagato per “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”, accusa che presto fu archiviata, avendo questi agito in conformità con le leggi del mare.

Non dobbiamo dimenticare, comunque, che abbiamo bisogno anche noi di forza lavoro, per svolgere quelle funzioni che nessun Italiano vuole fare più; dato che l’immigrazione riversa nei paesi di destinazione il meglio ed il peggio di un popolo, dobbiamo imparare a valorizzare le risorse umane di eccellenza che ci arrivano, educare i piccoli e cooptarli, pur avendo un atteggiamento fermo verso coloro che non meritano di essere dei nostri, in modo più efficace di quanto non venga fatto attualmente.

Foto: Marina Militare, AP, EPA, BBC

fonte : http://www.analisidifesa.it/2016/03/limmigrazione-e-le-sue-complessita/






Comments are Closed