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In Somalia giornalisti nel mirino: vietato indagare sulla corruzione

L’informazione libera soffre da anni per un doppio attacco in Somalia, il paese africano più pericoloso per i giornalisti. Minacciati da Al-Shabaab e perseguitati dalle forze di sicurezza della polizia politica governativa, Nisa, spesso infiltrate dai jihadisti di Al Qaeda, cronisti troppo curiosi che indagano sulla diffusissima corruzione subiscono minacce, arresti arbitrari e aggressioni. La Somalia di oggi è a un punto di svolta e va salvata: è la parola d’ordine finalmente partita nelle cancellerie occidentali. Il paese sta affrontando una carestia da mutamenti climatici che sta mettendo a rischio la vita di 7,5 milioni di persone e la guerra in Ucraina ha dirottato l’anno scorso gran parte degli aiuti umanitari. Da trent’anni, inoltre sta affrontando uno dei più lunghi conflitti civili in Africa, in una società fortemente clanica e lacerata.

La rielezione pacifica nel giugno 2022 del presidente Hassan Sheikh Mohammed, dopo un primo mandato nel 2012, è stata un passo avanti. Nel nuovo ordine mondiale la Somalia, porta d’accesso orientale all’Africa, è così tornata a essere strategica per gli Usa che ne stanno supportando gli sforzi per eliminare i terroristi islamisti entro il 2024. L’ambasciatore statunitense a Mogadiscio ha recentemente elogiato il governo che da dicembre ha riconquistato un terzo dei territori controllati da Al-Shabaab e si prepara a lanciare una seconda offensiva. Lo scorso febbraio l’Italia ha dichiarato che si prepara a ritornare con maggiori investimenti nell’ex colonia. Ma nel paese cui Trasparency International assegna il primo posto nella classifica della corruzione in Africa, proprio la libera informazione, pilastro essenziale per la crescita della democrazia, è bersagliata da due lati. Nel mirino sia dei terroristi che del governo, infatti, ci sono i reporter che si dimostrano troppo curiosi indagando su traffici di combustibili e aiuti umanitari che hanno contribuito ad arricchimenti molto rapidi di una nuova classe di speculatori. O troppo curiosi anche sui metodi di finanziamento di Shabaab, che opera come una organizzazione mafiosa e come tale sa indossare molte maschere, anche quella della legalità.

Forse era arrivato troppo vicino alla verità Liiban Abdi Warsame, 28 anni, giornalista del popolare canale televisivo Goob Joob News quando lo scorso 4 ottobre stava girando con un cameraman alcune riprese al mercato di Mogadiscio, Bakara. Il giovane è stato aggredito e picchiato da alcuni uomini qualificatisi come esponenti della polizia di sicurezza, Nisa, ed è stato arrestato e detenuto senza prove in carcere per tre giorni. Liberato, non può più uscire di casa senza essere aggredito e pestato. Un mese fa è stato accoltellato a un braccio e da allora vive chiuso in casa. « L’esercito mi ha torturato senza ragione – afferma –. Mentre Al-Shabaab continua a minacciarmi con messaggi sul cellulare, la Nisa aspetta che esca per arrestarmi. In questo paese i reporter affrontano paura e ansia continua, viviamo nel terrore. Ho lasciato il mio lavoro da cinque mesi. Non c’è libertà e al momento non ci sono prospettive per me in Somalia. Ma non voglio cedere perché niente è più prezioso della nostra anima».
La Somalia, secondo Reporter senza frontiere, è il paese più pericoloso in Africa per i giornalisti ed è al 140° posto su 180 nella classifica della libertà di informazione. Nel 2020 sono state introdotte leggi molto restrittive, che consentono allo stato un controllo serrato sul contenuto dei servizi per ragioni di sicurezza e che possono portare facilmente all’incarcerazione.

Tre anni fa i giornalisti somali per difendersi hanno creato un sindacato nazionale, il Sjs, cui aderiscono oggi 500 operatori dell’informazione. Offrono assistenza legale e intervengono dopo gli arresti per evitare sparizioni. Quando un giornalista viene arrestato, viene spesso trattenuto dalla Nisa e rinchiuso per giorni senza che di lui si abbiano notizie. Durante la detenzione non sono infrequenti i casi di violenze, abusi e torture. Per questo è finito nel mirino lo stesso segretario del Sjs, Abdalle Ahmed Mumin, imprigionato solo per aver fatto il suo lavoro. Cioè per essersi rifiutato di applicare una direttiva statale che obbliga i giornalisti a non usare il termine Al-Shabaab, sostituendolo con la più generale definizione di “gruppo estremista”. Per i giornalisti è una grave limitazione al diritto di cronaca e quello che è stato giustificato dal governo come uno strumento di contrasto alla propaganda dei jihadisti, in realtà toglie la possibilità di indagare sui terroristi. Abdalle collabora regolarmente con testate internazionali come “The Guardian” e “Wall Street Journal” ed è stato trattenuto senza ragione alcune settimane fa all’aeroporto di Mogadiscio mentre stava per prendere un aereo per Nairobi. Nella capitale del Kenya il giornalista doveva effettuare cure mediche, ma è stato fermato dagli agenti della migrazione e poi preso in custodia dalla polizia politica che lo ha rinchiuso senza alcuna accusa per due giorni senza contatti con la famiglia. Gli avvocati alla fine sono riusciti a trovarlo e il terzo giorno è stata pagata una cauzione per liberarlo.

Da allora non può lasciare la Somalia nemmeno per le cure di cui necessita per gli effetti di una vera e propria persecuzione. Per la sua ribellione ha subito due precedenti arresti a ottobre e dicembre, durante i quali è stato imprigionato in una cella dove la temperatura di giorno arrivava a 50 gradi, senza acqua potabile e subendo continui interrogatori. La sua vicenda, della quale ha scritto il “Guardian”, ha provocato le proteste di Human Rights Watch, che ha chiesto al governo somalo di smettere con la pratica degli arresti arbitrari e ha chiesto a tutti i paesi occidentali donatori – tra cui l’Italia in virtù dei buoni rapporti riallacciati – di fare pressioni su Mogadiscio. Ma su cosa stanno indagando Liiban, Mumi (che il Cpj, il Comitato di protezione dei giorna-listi, ha definito coraggioso e instancabile avvocato per i diritti dei colleghi) e i giornalisti che il governo somalo vorrebbe tanto imbavagliare? Parte della risposta viene dalle cifre diffuse dall’Africa center for strategic studies, che dimostra come il fattore chiave per la resilienza di Al-Shabaab sia la somma di entrate annuali che l’organizzazione riesce ad assicurarsi, circa 100 milioni di dollari. Soldi che, oltre a mantenere i combattenti, serve a sostenere la presenza dell’organizzazione terroristica nei diversi settori della società. Per dare un’idea, il governo federale ha un volume di entrate attorno ai 250 milioni annui.

Al-Shabaab estorce denaro incassando pedaggi stradali o imponendo tasse sulla proprietà nelle zone controllate. Inoltre, attraverso funzionari corrotti, estorce denaro alle compagnie che sbarcano le loro merci nel porto di Mogadiscio. La sua sezione di intelligence, Amniyat, ha infiltrato in questi anni il governo, acquisendo informazioni per ricattare le autorità locali, le comunità e gli scambi commerciali. Inoltre, avrebbe fatto pressioni sui potenti anziani dei clan per nominare candidati compiacenti alle elezioni per il parlamento e per le assemblee locali. Soprattutto, Amniyat ha ripetutamente infiltrato la famigerata Nisa, National Intelligence and Security Agency, la polizia politica che perseguita i giornalisti. Alcuni elementi delle forze di sicurezza sono stati cooptati dagli effettivi di Al-Shabaab, mentre un terzo della polizia della capitale è ritenuta compromessa. La resilienza del “gruppo estremista” è dunque parzialmente dovuta alla fragilità del governo stesso, frenato nell’azione dai vizi antichi del clanismo e del nepotismo che lo espone all’infiltrazione. La colpa dei giornalisti somali, cui è vietato persino chiamare Al Shabaab per nome, è di volerlo denunciare per fare pulizia. Roma può e deve fare molto per far cessare le persecuzioni.

Via: https://www.avvenire.it/amp/opinioni/pagine/vietato-indagare-sulla-corruzione-in-somalia-giornalisti-nel-mirino






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